La fatica dei tanti km percorsi, i pensieri in libertà, la gioia delle piccole pause. Quando sei in cammino, zaino in spalla, le tue priorità (o quelle che ritenevi tali) cambiano, si trasformano, si evolvono. Cominci ad avere una nuova percezione del tempo e del suo scorrere lento.
Di solito, quando sono in cammino da solo, viaggio ad una velocità di 3 km/h. Ho dato un nome a questa andatura, l’ho chiamata “La velocità dell’anima”. Perché a 3 km/h tutto si fa più chiaro: il rumore dei passi, il soffio del vento, la bellezza di un tramonto ed il peso dei ricordi. Soprattutto quelli. Ricordi che cerchi quotidianamente di tener lontano attraverso una vita piena e frenetica; ricordi che credevi di aver riposto nei meandri più profondi della tua mente ma che, improvvisamente, a 3 km/h, tornano a farti visita e ti costringono ad una conflittuale convivenza.
Avevo da poco terminato il cammino di San Benedetto e mi ero lasciato alle spalle tanti bei ricordi, oltre ai magnifici scorci paesaggistici dei Monti Aurunci, una catena preappenninica che nasce lungo la dorsale della nostra penisola e termina dolcemente nel mare del golfo di Gaeta, con il promontorio di Monte Orlando. Una catena montuosa selvaggia e suggestiva che aveva accompagnato i primi km lungo quel cammino. La sua vetta, il monte Petrella, dall’alto dei suoi 1533 metri s.l.m., rappresenta un meraviglioso balcone panoramico con vista privilegiata sui golfi di Napoli e Gaeta. Nelle giornate terse infatti, dalla sua cima, si può ammirare una splendida skyline lunga 150 km, che parte dalla penisola sorrentina e termina alle isole ponziane, passando per il Vesuvio e le isole flegree, dopo aver percorso tutta la linea di costa. Qualcuno, forzando un po ‘la geografia e con fiero spirito campanilistico, l’ha definita “La montagna più alta d’Europa a picco sul mare” in quanto la distanza della sua vetta dalla costa, in linea d’aria, è di appena 5.5 km. Non so se è vero, di certo per me è tra la più belle. Forse perché sono cresciuto a pochi km da qui è questi luoghi sono legati indissolubilmente alla mia infanzia.
Avevo deciso di percorrere il sentiero del Redentore nel tentativo di completare il cammino degli Aurunci in 4 giorni. Circa 150 km, attraversando 5 borghi e superando 5000 metri di dislivello totale. Conoscevo abbastanza bene queste montagne ma l’idea di percorrere tutto il crinale in un unico cammino mi incuriosiva e sollecitava al tempo stesso anche se, considerando il fatto che eravamo in pieno inverno, nutrivo più di una preoccupazione. Insomma una bella sfida.
Ero rimasto folgorato dai racconti di Tullio, un simpatico signore di 70 anni originario di Maranola (un borgo medievale di poche anime arroccato sopra Formia) incontrato per puro caso al rifugio Pornito, durante uno dei tanti sopralluoghi che effettuo prima di ogni escursione. Tullio passa le sue giornate su queste montagne, offrendo ai suoi avventori consigli tecnici e racconti di vita, oltre ad un buonissimo liquore di colore rosso sangue, prodotto sapientemente dalle sue mani utilizzando le erbe trovate lungo il sentiero e di cui custodisce gelosamente la ricetta, non condividendola con nessuno, nemmeno sotto tortura. Giuro che è una delle cose più buone che ho mai assaggiato in vita mia.
Ero in cammino da 1 giorno e, senza troppe difficoltà, avevo concluso la prima tappa del cammino da Minturno a Spigno Saturnia. Arrivato a Maranola decisi di proseguire per la vetta del Redentore, seguendo il sentiero CAI identificato con il numero 960. La scelta di percorrere questo cammino in pieno inverno, in solitaria, era supportata dalla convinzione che una corretta pianificazione potesse bastare a contrastare qualsiasi imprevisto. La questione è che non avevo fatto i conti con la furia della natura.
La vetta del Redentore non rappresenta una montagna a sé stante ma è la pendice meridionale del monte Altino (1367 m). Una montagna impervia ed isolata, dal profilo increspato ed irregolare. Vi si incontrano grotte, doline, pareti ripide e cavità naturali plasmate dall’azione dell’acqua e forgiate da mano divina, utilizzate fin dall’antichità come spazi sacri adibiti a riti ancestrali.
La notte precedente la partenza ho dormito poco. Ho ancora qualche dubbio di natura tecnica a cui non riesco a dare risposta. Questa catena antiappenninica presenta una bassissima antropizzazione e devo pianificare con attenzione eventuali vie di fuga in caso di meteo avverso. Non a caso in questi giorni è in atto una copiosa nevicata che ha reso diversi sentieri inagibili. Avevo leggermente modificato il percorso originale perché era mia intenzione rimanere qualche ora in più all’eremo rupestre di San Michele per scattare qualche foto per il mio sito www.camminamente.com.
Esistono due percorsi per raggiungere i 1252 metri della vetta del monte Redentore ed entrambi partono dal rifugio Pornito, ad una quota di circa 830 metri. Il primo, meno impervio, segue il percorso tracciato dai pellegrini ed era utilizzato nell’antica processione popolare di San Michele Arcangelo. Scelgo di percorrere un altro percorso, più lungo ed impervio, classificato come E+. Raggiungo il rifugio Pornito, punto di partenza, alle 6,30. avvolto da una fitta nebbia che non mi permette di vedere nulla oltre il mio naso. Faccio colazione con Marta e Vincenzo (i padroni di casa) che di queste montagne conoscono ogni centimetro quadrato. Il mio obiettivo è completare un anello di 22 km che mi permetta di scalare il monte Petrella, il monte S.Angelo e la vetta del Redentore e, se possibile, arrivare in tempo per godermi il tramonto sul golfo di Gaeta prima di raggiungere il rifugio Acquaviva. Saluto i simpaticissimi Marta e Vincenzo del rifugio Pornito ringraziandoli per la splendida accoglienza e mi incammino, armato di GPS e della mia inseparabile go pro, seguendo la strada sterrata fino alla forcella di Fraile per poi continuare verso il versante settentrionale del Monte Altino. Dopo lo scollinamento attraverso prima una faggeta ricca di lussureggiante vegetazione e poi uno splendido crinale che mi conduce alla vetta del Petrella, e poi a quella del monte S. Angelo. Tutto fila liscio, nonostante la visibilità limitata. Ha smesso di nevicare ed io sono in anticipo sulla mia tabella di marcia e raggiungo agevolmente la vetta del Redentore (1252 m). La vista da qui è stupenda. Dal Vesuvio alle isole pontine passando per i campi flegrei ed il Circeo. Nessun rumore, nessuna distrazione. Solo un’enorme sensazione di pace. Sono dentro la montagna e la montagna è dentro me.
Scendendo di quota, la mano dell’uomo restituisce un patrimonio artistico e storico poco conosciuto e ancor meno valorizzato. L’Eremo rupestre di San Michele Arcangelo (1161 m). Una splendida chiesa costruita nella roccia, plasmata dalle acque sorgive che percolano incessantemente dal costone calcareo. La prima cosa che colpisce di questo splendido eremo è che è stato costruito in perfetta simbiosi con la natura che lo circonda.
La chiesa custodisce la statua di San Michele Arcangelo, oggetto di fede e devozione per gli abitanti del luogo. Vincenzo, un escursionista incontrato lungo il cammino, vive questa montagna 12 mesi l’anno e mi spiega che l’ultima domenica di giugno una solenne processione, a cui partecipa tutta la popolazione, trasporta la statua di San Michele da Maranola fino alla chiesa. Sarà poi prelevata il 23 di settembre e riportata a valle, in tempo per la festa di San Michele Arcangelo, che ricorre il giorno 29. Per il resto dell’anno la statua resterà custodita e venerata nella Chiesa dell’Annunziata. Una processione molto sentita e attesa dai maranolesi, da sempre accompagnata da canti popolari e dal suono delle zampogne e delle ciaramelle, strumenti musicali tipici della tradizione locale. Maranola, infatti, come mi raccontava Vincenzo, è una delle “patrie” della Zampogna è proprio qui, ad aprile di ogni anno, si tiene uno dei festival più importanti dedicati a questo strumento tradizionale. Percorro l’ultima parte del sentiero zigzagando dalla sella “Sola” fino a raggiungere le due più imponenti pareti rocciose del Parco: Roccia Spaccata e Roccia Laolatra. Alzo lo sguardo e giuro che non riesco a scorgere la fine di queste due enormi pareti verticali che, durante i tramonti, si tingono di rosa regalando a queste montagne un aspetto ancor più suggestivo. Dimenticavo, il tramonto. Sono arrivato in tempo. Lo osservo con gli occhi socchiusi, incurante del fatto che tra poco si farà buio ed io ho ancora qualche km da percorrere prima di raggiungere il rifugio dove passerò la notte. Li percorrerò lentamente. A 3 km l’ora. La velocità dell’anima.
Il mattino seguente, di buon’ora, preparo lo zaino per rimettermi in cammino. Devo percorrere circa 30 km che mi condurranno ad Itri, il mio punto tappa. Lo scenario paesaggistico è completamente mutato ed il cielo terso ha lasciato il posto ad una fitta nebbia, che avvolge ogni metro quadrato, ogni angolo. Non riesco a vedere al di là del mio naso. A peggiorare la situazione un freddo pungente con temperature inferiori allo zero ed il ritorno della neve che ha imbiancato le vette oltre i 1200 metri. Decido quindi di aspettare qualche ora, nella speranza di una finestra di cielo sereno. Speranza vana, anzi se mai fosse possibile la visibilità è peggiorata. Ho a mia disposizione pochi minuti per decidere cosa fare. Siamo in pieno inverno e alla 15.00 sarà già buio, nella migliore delle ipotesi avrò circa 5 ore per completare la tappa. Col tempo ho imparato a seguire il mio istinto portando sempre il giusto rispetto alla montagna. A non sfidarla mai. Ho davanti a me due opzioni: proseguire, affrontando il rischio di essere inghiottito dal bosco che, nel frattempo, ha assunto un colore spettrale oppure rinunciare e rimandare la tappa al giorno successivo. Confidando nel mio GPS e sul fatto che conoscevo abbastanza bene questi sentieri, decido di proseguire, nel tentativo di raggiungere la vetta del monte Ruazzo in prima serata. Mai scelta fu più nefasta. Percorro, a fatica, i primi km impiegando circa 30 minuti. La visibilità non accenna a migliorare ed il mio GPS comincia a fare i capricci. A peggiorare la situazione una fitta e fastidiosa pioggia che ha trasformato la neve in nevischio. Poco male, continuo a seguire la segnaletica bianca e rossa ringraziando Dio ed i volontari del Caì per aver utilizzato una vernice catarifrangente, visibile anche in condizioni estreme come questa. Il sentiero è poco battuto per cui il satellitare, in assenza di visibilità, rappresenta il mio unico strumento di navigazione. Ma è una magra consolazione. Alla vetta mancano circa 2 km, circa 4000 passi ma io, se continuo a tenere questa velocità di crociera, non riuscirò mai a raggiungerla prima che cali il buio.
Arranco, sento il mio respiro affannato che si confonde con il rumore della pioggia dando vita ad una sinistra melodia, la mia andatura diventa maldestra nel tentativo di ritrovare il sentiero che intanto, inevitabilmente, continuo a perdere. In questi casi il GPS ti aiuta ma non risolve del tutto il problema. Sullo schermo vedevo impresso un pallino rosso diretto a nord che entrava e usciva dal sentiero tracciato. Ad ogni fuori pista perdevo tempo prezioso, riducendo al lumicino le speranze di arrivare in vetta prima che calassero le tenebre. E siccome le disgrazie non arrivano mai da sole, nel tentativo di evitare un tratto esposto, scivolo dal costone est rotolando per almeno 10 metri.
La mia caviglia destra è gonfia. Applico subito del ghiaccio e mi rialzo a fatica. Sono in un vicolo cieco. La fitta vegetazione non lascia più penetrare alcun raggio di luce. Accendo la torcia frontale, ma è come cercare di spegnere un grosso incendio utilizzando un bicchiere d’acqua. Quella che, fino a qualche ora fa, era una remota possibilità, si era tramutata in sinistra certezza. Mi ero perso e cominciavo ad accarezzare l’idea di passare la notte qui.
Ogni volta che affronto un cammino in solitaria ed in condizioni meteo avverse, è mia consuetudine preparare un piano B. In questa ultima, insidiosa tappa, mi aveva raggiunto mia moglie. Compagna di vita e di avventure. L’unica di cui mi fidi ciecamente. Anche in considerazione del fatto che conosce bene il territorio occupandosi da anni della logistica delle mie escursioni di gruppo.
Anna era ferma ad Itri e il programma prevedeva che, una volta raggiunta la meta, saremmo tornati a casa insieme, in auto. Mia moglie conosceva perfettamente la procedura da mettere in atto in caso di emergenza. Se avesse ricevuto un messaggio dal mio GPS con la posizione esatta ed in assenza di copertura telefonica, si sarebbe messa in cammino, in auto, seguendo le coordinate della mia ultima posizione lungo i tornanti della rotabile, che scorrono paralleli al sentiero, ma a quote relativamente più basse. Mi avrebbe aspettato quindi al rifugio di Acquaviva, punto di partenza della tappa di oggi. Saranno passati 60, interminabili minuti durante i quali ho cercato di mantenere la lucidità, nella speranza di sentire il rumore dell’acqua della fontana del rifugio. Speranza che si trasforma prima in sollievo e poi in pura euforia quando, in lontananza, percepisco nitide le frequenze sonore dell’acqua che sgorga dalla fontana. Scendo lentamente dal costone ovest della montagna, facendomi spazio tra le sterpaglie e cercando di evitare i dirupi grazie alla luce frontale. L’abbraccio ed il sorriso rassicurante di mia moglie è, senza ombra di dubbio, uno dei momenti più belli ed intensi che abbia mai vissuto. Ero felice, nonostante non fossi riuscito a completare la tappa. Felice di rivederla, di riabbracciarla. Di condividere con lei uno dei più bei fallimenti della mia vita.