IL CAMMINO MATERANO

 

Per chi, come me, ha fatto dell’escursionismo uno stile di vita, l’ispirazione è una componente fondamentale.
La scintilla da cui tutto nasce.
Una spinta indispensabile che alimenta perennemente la mia fame di curiosità e mi proietta, caparbiamente, verso la realizzazione di nuovi progetti itineranti. Da qualche tempo avevo cominciato a camminare lungo i grandi itinerari del sud Italia. Un complesso intreccio di sentieri, mulattiere e vie antiche che da Roma giungono fino ad Agrigento, passando per la Puglia e la Calabria.
Avevo cominciato percorrendo la via Francigena del sud partendo dalla Campania ed arrivando in Puglia a cui seguirono, dopo poco, il cammino di S. Francesco da Paola ed il Calabria coast to coast; tre mesi dopo attraversai la Sicilia percorrendo la Magna via Francigena (da Palermo ad Agrigento) e la Via Normanna (da Messina a Palermo).
Mi mancava la Basilicata.
Una terra dai vasti orizzonti e dai profondi silenzi, troppo spesso dimenticata.
Avrei percorso la via Peuceta, una delle varianti del cammino materano. Con partenza da Bari ed arrivo a Matera dopo circa 170 km e 7 tappe.
L’idea di percorrere questo affascinante, quanto duro cammino, mi venne qualche mese prima, dopo la presentazione dell’ultimo libro del mio amico Andrea Devicenzi, atleta paralimpico ed autore di imprese estreme in giro per il mondo. Lo avevo invitato a Napoli per un convegno sulla disabilità per parlarci della sua ultima impresa estrema e presentarci in anteprima il suo documentario: “l’Islanda su un solo pedale”, ovvero il giro del periplo dell’Islanda in bici. Organizzai quell’evento curando ogni minimo particolare con l’obiettivo di far conoscere alle persone la storia di Andrea che, oltre ad essere un grande atleta è per me, soprattutto, fonte di ispirazione. La scintilla di cui avevo bisogno in quel momento.
Andrea ha alle spalle una storia molto particolare; perse la gamba sinistra a 18 anni dopo un terribile incidente in moto. Da quel momento in poi la sua vita cambiò radicalmente e le sue certezze vennero a mancare. Era già un ottimo sportivo agonista e cosi, dopo l’incidente, con tenacia e perseveranza, riuscì ad entrare nella nazionale italiana di nuoto paralimpica e di partecipare anche ad un’olimpiade in Australia.
Quei giorni passati con Andrea furono, per me, un’incredibile fonte di ispirazione e, spinto anche da Alessandro Bocchi, scrittore, viandante e anima dello staff di Andrea, decisi di intraprendere, di lì a poco, il prossimo cammino zaino in spalla attraversando l’altopiano delle Murge fino a Matera.
Decido di partire in corrispondenza delle festività natalizie, in quanto in quel periodo, da sempre, sospendo i miei tour escursionistici che poco si sposano con il turismo di massa che invade Napoli e la costiera amalfitana durante i giorni di festa.
All’alba del 18 Dicembre sono in partenza dalla stazione di Napoli per il terminal di Bari. Arrivo alla basilica di San Nicola (punto di partenza) poco prima delle 9.00 e, dopo un caffè fugace, sono già in cammino. Con me ho uno zaino da 60 litri dal peso di circa 16 kili. Tanti. Nonostante i numerosi tentativi fatti il giorno prima per alleggerirlo. Per i primi 12 km cammino lungo la statale, tra cumuli di immondizia e auto che sfrecciano a pochi centimetri da me, alimentando un crescente nervosismo che poco si sposa con lo spirito pellegrino.
Per fortuna da lì a poco lo scenario paesaggistico cambierà radicalmente. L’asfalto lascia il posto ad enormi spazi verdi e distese di ulivi perfettamente allineati che, con i numerosi rami intrecciati, disegnano suggestive figure ancestrali, simili a ballerine classiche che mi accompagnano fino alla Cattedrale romanica di San Michele Arcangelo di Bitetto, punto tappa. Nei giorni successivi, lentamente, la piana costiera cederà il posto alle distese steppiche dell’altopiano murgiano, dove si alternano macchie di bosco e sinuose colline. Uno scenario paesaggistico unico che mi accompagna fino a Cassano delle Murge, punto tappa, dove passerò la notte in un luogo incredibile, “La pecora nera.”
Si tratta di un cottage con annesso pub in stile irlandese, immerso in un enorme parco di querce centenarie. Tra l’altro si trova proprio lungo il percorso, all’inizio della terza tappa e questo faciliterà non poco il mio cammino. Di sera, davanti ad una meritata birra, scambio due chiacchiere con Paolo, il referente di questa tappa e mi imbatto nella leggendaria figura di Sant’Euligio da Marbella.
Ma chi è S. Euligio?
Un santo barbuto in reggicalze raffigurato con uno stinco di maiale in mano ed una farfalla tatuata sulla coscia sinistra. Una vera star tra i viandanti del cammino materano al punto da essere citato anche nella guida ufficiale. Onde evitare scomuniche, ci tengo a precisare che non si tratta di un santo “istituzionale”ma di una figura immaginaria, nata dalla fantasia di alcuni amici che, davanti ad una birra, hanno rimescolato, ironicamente, l’agiografia cattolica tradizionale.
Con la benedizione di S. Euligio ed un ritrovato entusiasmo, il mattino successivo varco la soglia del Parco Nazionale dell’alta Murgia; sono in cammino da 3 giorni, rispettando fedelmente la mia tabella di marcia. Le prime notti ho dormito in luoghi ameni, essenziali. A volte scomodi.
Una casa messa a disposizione dalla rete accoglienza (la prima notte) ed una stanza gentilmente offerta dalla chiesa (la seconda notte). L’unico lusso che mi sono concesso, al momento, è rappresentato dalla notte passata al cottage “La Pecora nera”.
Durante i primi 50 km ho incontrato pochissime persone, nessun viandante e tanti animali al pascolo. Del resto sono gli scenari tipici di questi paesaggi, dove si alternano creste rocciose, cavità carsiche e dolci pendii.
Dopo aver attraversato Cassano delle Murge, Santeremo ed Altamura, raggiungo la fatidica soglia dei 100 km percorsi che, oltre ad un’appagante soddisfazione personale, portano in dono le prime inevitabili vesciche al piede ed un dolore insistente alle anche, appesantite del peso eccessivo del mio zaino. Matera è ancora lontana 70 km ed io comincio a nutrire seri dubbi sul buon esito di questo cammino. E siccome al peggio non c’è mai fine, mi sono accorto di avere un problema serio alle scarpe. Per questo cammino avevo deciso di indossare delle scarpe da Trial, HOKA, decisamente comode e performanti, ma non adatte ad un terreno argilloso reso ancora più appiccicoso dalla pioggia dei primi km, le. Ho bisogno di riposo, di curare i miei piedi e di alleggerire lo zaino. Non importa in quale ordine.
Arrivo in un ostello (o qualcosa che lo ricorda molto) ad Altamura alla fine della quarta tappa, per passare la notte e cercare di recuperare le energie perdute. Mentre mi avvio alla mia stanza, posta in fondo al corridoio, saluto distrattamente l’unica persona presente. È un viandante, facilmente riconoscibile dell’abbigliamento e da un enorme zaino che giace ai suoi piedi, intento a guardare sul divano della hall la finale mondiale di calcio Francia Argentina. Ci presentiamo. Si chiama Marco ed ha più o meno 60 anni. Scambiamo qualche fugace frase di circostanza (tra pellegrini funziona sempre così) e ci diamo appuntamento al mattino seguente, decidendo di percorrere i primi km della tappa insieme. La solitudine, fedele compagna di viaggio in questa prima parte di cammino, cominciava a cedere il posto alla voglia di interagire. Dopo un po’funziona sempre così. Del resto la solitudine non è vivere da soli ma non essere in grado di fare compagnia a qualcuno.
Il mattino successivo, dopo un’abbondante colazione, io e Marco eravamo già in cammino. Ha un passo fluido e costante che fa a pugni con la mia andatura caracollante, appesantita dalle vesciche e dal dolore alle anche.
La mia attenzione si concentra sulle sue scarpe; delle vecchie ed improbabili Adidas Campus di almeno due numeri più grandi. Nonostante la curiosità evito qualsiasi domanda in merito. Anche perché il suo passo è molto più fluido e regolare del mio. Faccio quasi fatica a parlare e a stargli dietro.
Tra una pausa e l’altra parliamo di viaggi, di sport, di politica. E’ una persona piacevole, aperta al confronto. Insomma un compagno di viaggio ideale.
Ma le sue scarpe…
Erano diventate per me un’ossessione.
Condividiamo un pranzo fugace in un trullo abbandonato nel mezzo di una distesa di ulivi. Pane, formaggio e delle arance selvatiche trovate lungo la strada. In maniera del tutto naturale completiamo i 22 km della tappa fino a Gravina e decidiamo di cenare insieme. Ed io, davanti ad uno spezzatino di cavallo e a un buon calice di vino rosso, colgo al volo l’occasione per domandargli del perché indossasse quelle improbabili scarpe da ginnastica di due numeri più grandi.
“Belle vero”? Mi risponde divertito.
“Beh…si. Alla moda. Forse però non sono adatte ad un lungo cammino come questo, non ti danno fastidio? “
Marco mi guarda con tenerezza, poi abbassa gli occhi ed abbozza un mezzo sorriso.
“Sono comodissime. Sai, ci tengo a queste scarpe. Erano di mio figlio. Si chiamava Paolo e proprio come te era un pellegrino e aveva percorso diversi cammini in solitaria; nutriva un grande rispetto per la natura e per la vita. Portava queste scarpe al momento dell’incidente in moto che me l’ha portato via, circa 3 anni fa”.
Ascolto in rispettoso silenzio, consapevole del fatto che qualsiasi parola detta in quel momento potesse risultare fuori luogo.
“5 mesi dopo la sua morte mi sono messo in aspettativa ed ho cominciato a camminare, calzando le sue scarpe, zaino in spalla, ripercorrendo minuziosamente i suoi cammini, per poter vivere in prima persona quei luoghi che tanto lo avevano emozionato. Ed ho voluto farlo calzando le sue scarpe, in modo da tenere ancora vivo il suo ricordo e la sua passione. E pensa che fino ai 50 anni ero un sedentario convinto e praticante”.

Camminando da soli, zaino in spalla, si apprende la vera essenza della vita, si leniscono le ferite e si metabolizzano i dolori, forse perché i tanti km percorsi in silenzio ti consentono di sganciarti completamente dai pensieri indesiderati, lasciandoli alle spalle insieme a tutto ciò che eccede. L’ho sempre pensato e la storia di Marco e di suo figlio, se mai ce ne fosse stato bisogno, me lo stava confermando.
In 7 giorni avevo vissuto un’avventura nel Mezzogiorno più autentico, perdendomi in ampie lande e percorrendo vallate calcaree; avevo attraversato piccoli e sconosciuti borghi virtuosi dove il tempo pare essersi fermato. Adesso invece avevo semplicemente voglia di condividere gli ultimi km che ci separavano da Matera con Marco e con suo figlio Paolo. Che sentivo vivo e vicino a noi. Intanto una fastidiosa ed incessante pioggia accompagnava il nostro cammino oramai da qualche ora. Saluto il mio compagno di viaggio e mi appresto a percorrere gli ultimi km che mi separano da Matera. Il sentiero principale risultava in gran parte impraticabile in quanto la pioggia caduta aveva trasformato il terreno argilloso in un enorme pantano, con i piedi che affondavano ad ogni passo. Come nelle sabbie mobili. Sono costretto a continui fuori percorso che allungano, e non di poco, la tappa. Gli ultimi km che mi separano dalla meta finale presentano un dislivello altimetrico notevole che mette a dura prova le mie articolazioni, già appesantite dai 165 km percorsi finora. Ricordate la storia di Ulisse e di suo figlio Telemaco che vi ho raccontato all’inizio del libro?
Telemaco era il figlio di Ulisse e passò gran parte della sua vita a cercare il padre, non sapendo se questi fosse vivo o morto.
Ma lo cercava.
E lo trovò, dopo 20 anni.
Così come Marco ritrova suo figlio Paolo tutte le volte che si mette in cammino, indossando quelle scarpe che hanno ancora molti km da percorrere e tante storie da raccontare.
Arrivai a Matera la sera del settimo giorno di cammino. Stanco e con una gran voglia di tornare a casa per poter trascorrere il Natale in famiglia, impaziente di raccontare a mio figlio le ultime, strabilianti avventure del suo eroe preferito e con la promessa di averne ancora tante da scriverne assieme.