Non volevo un marito, volevo tuo padre”. Erano queste le parole che solitamente mia madre usava per descrivermi il suo rapporto con mio padre.
La sua famiglia apparteneva al proletariato mentre mio padre proveniva da una lunga generazione di macellai con mio nonno che era stato decisamente prolifico. Come molte donne della sua generazione era cresciuta senza istruzione, tuttavia ben decisa ad emanciparsi. Ha sempre lavorato. E quando sposò mio padre, anche grazie al suo aiuto, la famiglia si era guadagnata un ruolo nel ceto medio-alto del paese, cui aveva sempre aspirato. Senza mio padre, che avevo perso adolescente, spesso la trovavo in preda ad una paranoia crescente e con la caparbietà di una bambina che non sempre accettava le regole.
I morti non se ne vanno subito. Ripeteva.
In realtà credo che forse siamo noi a non volercene separare, incapaci di accettare la loro scomparsa. Autoritaria, quando la sgridavo mi metteva il broncio e non mi dava più ascolto. Senza mio padre si sentiva sola in questo viaggio, con parti di sé che sembrava aver perso in angoli silenziosi di questo mondo.
Una mattina cadde e si ruppe il femore. La portammo in ospedale. Capitò in un periodo nero, con me che avevo appena deciso di lanciarmi nella nuova avventura lavorativa. La operarono ma subentrarono complicazioni che non le lasciarono scampo. Sapevo che non sarebbe durata a lungo e di quell’episodio conoscevo già il finale.
Sentivo le guance asciutte e il cuore bagnato da quei fiumi di nostalgia e tristezza che tuttavia non riuscivano, nonostante la loro forza, a spezzare i ghiacciai di quella lastra che era il suo volto ormai inespressivo davanti alla vita, che aveva vissuto appassionatamente, soffrendo e rallegrandosi, delusa e contenta. Una pagina, la sua vita, piena di macchie di inchiostro e linee che si intrecciano, piena di confusione e spazi bianchi, qui e là: linee come il viaggio di andata, linee come il viaggio di ritorno, con gli incroci che sono le fermate e con il battito del cuore a scandire il tempo. L’avevo tenuta spesso a distanza e adesso sentivo che con lei se ne andava l’ultimo testimone della mia infanzia. Ero pervaso da un senso di colpa per il rapporto che, ultimamente, non avevo più cercato.
Pirandello, quando è morta sua mamma scrisse: Non sei morta tu, ma io perché tu nel mio ricordo ci sei ancora, ma io nel tuo non ci sarò mai più. È rimasta con me fino alla fine dei suoi giorni ed il suo ultimo respiro lo ha emesso tra le mie braccia, mentre i nostri squadri si incrociavano, più vivi ed intensi che mai. Nonostante la morte.
Le riuscì a sussurrare solo una parola: “Scusami.”
Quelli che seguirono furono giorni di amara riflessione, sentivo forte la necessità di staccare per un po’ la spina, di riporre il mio amato zaino che tante gioie mi aveva regalato, finché arrivò lo squillo del telefonino che mi segnalava la chiamata di Gregorio, un mio amico di avventure sul territorio laziale. Gregorio e’ un grande esperto di questo territorio, ha 68 anni e da giovane faceva il barbiere, a Itri. Conosce fatti e misfatti di tutta la popolazione ma, ci tiene a sottolineare orgoglioso: “mi sono sempre fatto i fatti miei, sapessi quante famiglie avrei sfasciato se solo avessi parlato”.
Oggi è in pensione e passa il suo tempo libero facendo
la guida ambientale per l’ente parco “Riviera di Ulisse”. C’erano da portare 60 turisti, provenienti da Verona, in giro per la costa laziale. La moglie non stava per niente bene e lui aveva un impegno con questo gruppo preso già qualche mese prima. Lo presi come un segno divino. Da qualche tempo, infatti, stavo pianificando un nuovo cammino. L’idea era quella di percorrere, lungo la battigia, tutta la costa meridionale del Lazio in 4 giorni, dal Circeo alla foce del fiume Garigliano e quindi a Mondragone, valicando il confine tra Lazio e Campania. Circa 96 km di cammino rispettando una sola regola: restare il piu’ vicino possibile al mare. Avrei accompagnato i turisti di Verona tra una tappa e l’altra.
Era tempo di indossare di nuovo il mio amato zaino e (ri)partire.
L’idea di camminare in riva al mare seguendo la linea di costa come unico sentiero mi affascinava già da qualche tempo. Nei mesi precedenti avevo percorso in solitaria tutta la costa campana dalla costiera amalfitana al Cilento, rimanendone estasiato. Volendo dare continuità a questo progetto (a cui avevo dato il nome di “Cammino del mare”) mi accingevo a percorrere circa 95 km di battigia partendo da Itri ed arrivando a Mondragone. Ho sempre considerato il tratto di costa laziale, e questo sentiero in particolare, un luogo in perenne equilibrio tra storia e leggenda, quasi come una provocazione ai più giovani, sempre alla ricerca di un cuore che capisca più che di una luce che illumini.
La prima tappa mi conduce dal promontorio del Circeo alla sua vetta, picco di Circe a quota 541 metri. Guardando il mare sotto di me che si confonde con l’orizzonte in lontananza, salivano a galla i ricordi del film Ulisse che avevo visto qualche tempo prima e riecheggiavano nella mente, come un ritornello, i dialoghi tra lo stesso e la maga Circe. Riesco a completare la prima tappa nei tempi previsti, ho anche il tempo di ammirare il tramonto dalla spiaggia di Levante in compagnia di una birra ghiacciata. Il mattino seguente, di buon’ora, sono pronto ad onorare l’impegno preso con Gregorio ed accompagnare i turisti lungo il cammino di Ulisse che, guarda caso, coincide perfettamente con la seconda tappa del mio personale cammino.
Un percorso che nasce e si sviluppa nel cuore del parco regionale di Ulisse per 8 km circa, con partenza dal museo archeologico di Tiberio ed arrivo alla torre Truglia, dopo aver scavalcato il promontorio sovrastante che ospita la Big Bench, una panoramica panchina gigante. Un percorso breve, che dura solamente 3 ore e per questo alla portata di tutti: adulti, ragazzi e persino bambini. L’appuntamento con il gruppo era presso la chiesa S.S. Maria Assunta che si trova nel centro storico di Sperlonga. Il percorso si svolge lungo la costa laziale tra Fondi e Gaeta, un tratto di particolare bellezza che ricalca, in parte, la vecchia via Flacca.
Si cammina seguendo la linea di costa ed attraversando due tra le spiagge più belle del litorale laziale. Quella di ponente e quella di Levante.
Era proprio ciò di cui avevo bisogno in quel momento, un luogo che ispirasse fiabe ed atmosfere da “C’era una volta”.
Sono i luoghi della Dea Circe, la divinità dai riccioli belli, tramandata per la sua arte dell’incanto, l’emblema del fascino che da sempre esercita la femminilità, capace di operare metamorfosi e di trasformare gli uomini. L’incarnazione dello spirito femminile dominante che prende l’iniziativa, suscitando il desiderio.
Omero ha voluto raccontare Circe proprio in questi luoghi non ancora civilizzati, tra la fitta macchia e la selva, in cui gli uomini vivevano dell’autoconsumo di prodotti della terra, del mare, della cacciagione, mentre la sua descrizione fisica con i suoi bei riccioli fanno pensare a una donna dell’alta società.
Tutto il percorso sembra un silenzioso testimone di quelle vicende omeriche. Dopo circa 5 km di cammino mi imbatto nel museo archeologico di Tiberio, tappa ob-bligata per tutti i turisti che transitano da queste parti. Un luogo paradisiaco dove convivono arte, storia e natura. Il paesaggio è incantevole e rilassante, grazie ad un evidente contrasto tra il verde della collina e il blu del mare. Ne rimase incantato anche l’imperatore Tiberio che, sulla grotta che porta il suo nome, aveva fondato il primo nucleo abitativo di Sperlonga. Questo termine, infatti, deriva da “spelucae”, ovvero grotta.
Tiberio si trattava bene, del resto stiamo parlando pur sempre di una residenza imperiale. Pensate che si era fatto costruire proprio all’interno della grotta una lussuosa “cenatio”, luogo del buon mangiare, circondata da ninfei zampillanti e da splendide statue raffiguranti il ciclo di Ulisse, l’eroe omerico. Qui l’imperatore, oltre a essere catturato dalla meraviglia dei panorami, veniva preso per la gola grazie alla grande offerta di prodotti disponibili sia in mare che in collina, proprio grazie alla particolare conformazione del territorio caratterizzato da rilievi e costoni che si tuffano nel tirreno. Ancora oggi garantiscono una offerta gastronomica a 360 gradi, con la cucina locale che è un mix tra quella laziale, con la forte influenza di Roma e la tradizione campana, specialmente per quanto riguarda mozzarelle e prodotti caseari. Il confine regionale con la Campania, dopotutto, è distante veramente pochi chilometri ed è anche l’obiettivo che mi ero prefissato di raggiungere a piedi prima di partire. Dopo aver completato il tour con il gruppo di turisti veronesi passai la serata nel centro storico di Sperlonga. Quel giro capitò in occasione di un importantissimo evento, “i sapori del mare”, che si sviluppa
in vari punti della cittadina di Sperlonga: nella parte bassa, in piazza Fontana erano allestiti gli stand gastronomici e gli eventi di show-cooking, mentre lungo la via del Porto c’erano gli stand dell’artigianato locale. Un’occasione unica per fare il carico di carboidrati e ritemprare lo spirito.
Il mattino seguente, di buon’ora, sono di nuovo in cammino. Mi lascio alle spalle Torre Truglia e proseguo, quando possibile, lungo la battigia, seguendo fedelmente la linea di costa. In meno di tre ore raggiungo la spiaggia di Serapo a Gaeta camminando per diversi km lungo la statale con le auto che passavano minacciose a pochi cm. Ma ne è valsa la pena. Ai miei occhi si presenta uno scenario paesaggistico unico, un palcoscenico policromatico che incanta con il blu del mare, il celeste del cielo, la sabbia dorata e i resti di ville romane.
Decido di fare una pausa, ignorando per un po’ la rigorosa tabella di marcia che mi ero imposto di rispettare. Di fronte a me la spiaggia di Serapo deserta, tronchi abbandonati, gabbiani in cerca di cibo e due cani che si contendono un legnetto. Con il tempo ho imparato che la natura, nella sua magnificenza e ‘democratica, in quanto tende a riequilibrare tutti gli elementi, a differenza della società in cui viviamo che invece amplifica ed accentua le differenze.
Non senza fatica mi incammino verso il monte Orlando seguendo la statale e lasciandomi alle spalle l’odore del mare con il suono ritmico delle onde che si infrangono dolcemente sulla battigia. Il mio obiettivo è scollinare verso il promontorio di Monte Orlando e riprendere la costa dopo aver attraversato Gaeta vecchia.
Raggiungo la vetta, posta a 171 metri s.l.d.m., in meno di 1 ora percorrendo il sentiero del Ghiro e ne approfitto per visitare le numerose attrazioni (storiche e naturalistiche) presenti lungo il percorso. Dai numerosi resti archeologici dell’impero Romano (Mausoleo di Munazio Planco), alle polveriere borboniche utilizzate durante il Regno di Napoli (Carolina, Trabucco e Ferdinandea), dal più grande sistema difensivo dell’Esercito Italiano (Batteria anulare) fino alla grotta del Turco e alla sug- gestiva Montagna Spaccata. Si tratta di tre fenditure verticali nella roccia createsi nel XV secolo in seguito ad un terribile terremoto. Due di queste sono visitabili. La prima conduce alla cosiddetta ‘Grotta del Turco’. Uno specchio d’acqua blu cobalto che veniva usato dai saraceni come approdo temporaneo. La seconda conduce alla cappella del Crocefisso. Ci entro a fatica. La fenditura verticale è larga meno di un metro, lunga circa 40 e racchiude, alla sua estremità, la splendida cappella del crocefisso e, all’inizio, la tomba di S. Filippo Neri. Considerato l’orario e la bassa stagione ho il privilegio di essere l’unico visitatore, non pagante, di tanta bellezza. Questo sito è percorso ogni anno da migliaia di fedeli provenienti da tutta Europa. Tra questi la leggenda narra di un miscredente turco che, mettendo in dubbio l’origine sacra delle spaccature della montagna, appoggiò baldanzoso la mano; questa, secondo la tradizione, si sciolse all’istante come cera sotto le sue dita, lasciando così l’impronta nitida della mano e delle 5 dita che ancora adesso è possibile vedere.
Oramai si è fatto buio e, considerando che l’indomani dovrò camminare per diversi km sulla statale, decido di passare qui la notte, in un’enorme stanza utilizzata come sala riunioni, munita di bagni, messa a disposizione dai sacerdoti. All’alba del giorno dopo, ben riposato, sono di nuovo in cammino direzione Gianola, seguendo la lingua costiera che separa i monti Aurunci dal mare del golfo di Gaeta. Rimango affascinato da questi ambienti naturali con sentieri immersi nella folta vegetazione ed impreziositi da numerosi resti di epoca romana, segno di un’incessante attività umana che si protrae da almeno 2000 anni.
Il ricordo di mia madre, la bellezza della natura, la storia e i colori del posto mi avevano fatto dimenticare il mio vero obiettivo: dovevo arrivare alla foce del Garigliano, ovvero il confine tra il Lazio e la Campania, entro le 17.00 in tempo per concludere il mio cammino di Ulisse alle prime ombre della sera. Decido quindi di percorrere, fino a Minturno, la via Francigena del sud in quanto l’11ma tappa, la Formia-Minturno di 20 km, coincideva perfettamente con il mio itinerario. Cammino per 4 km lungo la litoranea spingendomi fino al Parco Naturale Regionale di Gianola e monte di Scauri. Questo luogo, trovato quasi per caso, ospita il porticciolo romano, una struttura risalente al I secolo a.c. concepito come ormeggio per le navi romane. Poco più in la un sentiero che si snoda parallelamente al mare, mi conduce alla villa di Mamurra. Un grande complesso, tutt’ora in fase di scavo, attribuito al potente e ricchissimo cavaliere di età cesariana. Poco più sotto è possibile ammirare i resti di due cisterne con 36 colonne, una scala coperta (conosciuta come Grotta della Janara) ed i resti di un ambiente termale.
Da sempre considero camminare da soli zaino in spalla un atto rivoluzionario. Una presa di coscienza radicale contro la società moderna, che invece ha fatto della fretta e del consumismo uno status symbol.
Camminare da soli ti costringe a riflettere, a fare i conti con te stesso e a riconsiderare tutti i rapporti interpersonali che hai costruito nel tempo. Oggi visioni idealizzate suggeriscono che i momenti veri sono quelli in cui prevale gioia, amore, benevolenza, attitudine positiva. Non sempre è così. La storia di Ulisse ci dimostra come l’inganno sia un cammino breve e spesso inaspettato.
Superato il fiume Garigliano e lo splendido ponte Borbonico valico il confine campano.
Lo scenario paesaggistico e naturalistico è completamente cambiato. Le splendide pinete di ginepro e lentisco avevano lasciato il posto ad enormi palazzoni in cemento, in gran parte disabitati.
Seguendo la linea di costa arrivo al canale Agnena. Ricordo bene questo posto in quanto, durante la pianificazione delle tappe che aveva preceduto il cammino, lo avevo evidenziato in rosso. Che nel mio gergo significava una sola cosa: prestare la massima attenzione. Avevo scoperto infatti che il canale non aveva collegamenti tra le due sponde motivo per cui, se avessi voluto proseguire, avrei dovuto circumnavigarlo passando per la domitiana. Una strada statale a scorrimento veloce molto pericolosa e priva di marciapiedi.
In lontananza intravedo le sagome di quelli che sembrano operai a lavoro. Intravedo chiaramente una ruspa che sta dragando parte del fondale del canale.
Mi avvicino incuriosito. Non appena si accorgono della mia presenza interrompono bruscamente i lavori. La prima cosa che mi salta agli occhi è che non indossano nessuna divisa lavorativa, nessun casco, nessun dispositivo o equipaggiamento di sicurezza. Niente di niente.
Uno di loro si avvicina mentre gli altri rimangono a debita distanza ma con lo sguardo ancora fisso su di me
“Che vuoi”?
È ragazzo sui 30 anni, barba lunga, capelli rasati e l’aspetto di chi ha poco tempo da perdere.
“Sono in cammino lungo la costa, ho da percorrere an-
cora qualche km e avrò terminato, il canale non è attraversabile vero?”
“Ti conviene andare via”
Giuro che ho passato i successivi 20 secondi inebetito, senza sapere cosa stesse succedendo.
Poi, d’improvviso, un’illuminazione.
Aguzzando un pochino la vista avevo notato, in lontananza, dei rifiuti solidi e dei bidoni sigillati con una scritta in tedesco. Ne contai almeno 9. E allora tutto si fece più chiaro. La ruspa non stava dragando il canale ma sotterrando rifiuti. E quelli che sembravano operai a lavoro altro non erano che malviventi al soldo di chissà quale organizzazione criminale. Saranno passati non più di 3 minuti, per me un’eternità.
Forse impietositi dal mio sguardo mi caricano su uno scooter (guidato da un ragazzino) e mi lasciano lungo la Domitiana. Assicurandosi che rimanessi li. Lungo il tragitto il ragazzino cercò una primitiva forma di dialogo:
“Ma chi sei, che vuoi”?
Ed io imperterrito:
“Sono in cammino lungo la costa, ho da percorrere ancora qualche km e avrò terminato, il canale non è attraversabile vero?”
Lui stette in silenzio qualche secondo, poi, senza voltarsi mi congedò con queste parole: “Sei una guardia…o un giornalista? Chiunque tu sia questa è brutta gente.
Stai lontano e non venire più “.
Avevo cominciato questo cammino alla ricerca della verità, quella che abita dentro di noi e ci rende disponibili a sintonizzarsi con l’altro suggerendo un atteggiamento di accoglienza. Avevo terminato con un gruppo di malviventi intenti a sotterrare rifiuti tossici in uno dei siti naturalistici piu belli della Campania.
Il mio cammino di Ulisse finisce qui, 5 km prima del previsto. Avrei dovuto terminare sul lungomare di Mondragone dove mi avrebbe aspettato mia moglie per riportarmi a casa ed invece fermo sulla Domiziana, seduto lungo una piazzola di emergenza ad aspettarla dopo averle raccontato l’accaduto per telefono. In lontananza intravidi la sagoma della nostra auto e mio figlio che mi salutava entusiasta con la testa fuori dal finestrino. Il bambino aveva in mano un foglio A4 che sventolava eccitato e su cui erano impresse le parole più belle che potessi leggere.
“Bentornato a casa mio eroe.”