Fino alla soglia dei 40 anni sono stato figlio di questa società, assorbito dalle vanità materiali e attratto da un “flebile” desiderio di acquisire l’onore vano, il successo. Una nuova consapevolezza ora mi rendeva pronto e deciso a lanciarmi, privo di paracadute, nella mia nuova avventura di vita e col cuore aperto alle più rosee speranze. Fremevo dalla voglia di indossare il mio amato zaino e partire per una nuova avventura. Avevo già alle spalle diverse esperienze sui sentieri italiani, per lo più cammini che non superavano i 150 km. Studiavo le mie prossime mosse e vagliavo le numerose possibilità di cammino saltando da palo in frasca nei numerosi siti web specializzati che proponevano percorsi più o meno suggestivi finché, una sera, mi ritrovai a discutere di cammini davanti ad un caffè con il mio amico Nicola, esperto di agricoltura ed aree rurali di pregio. Con lui avevo già percorso e condiviso qualche tappa sulla via Appia antica, la Regina Viarum.
Nicola mi conosceva bene e non esitò a suggerirmi il cammino di San Benedetto, sforzandosi di spiegarmi la sorprendente modernità di questo Santo in economia, medicina e in agricoltura. Un cammino lungo circa 305 km che ripercorre fedelmente le tracce di San Benedetto da Norcia fino a Cassino.
In passato avevo già percorso la via di Francesco, un cammino simile di 190 km che si snoda da Greccio (nel Lazio) ad Assisi e ne ero rimasto folgorato. Conoscere la vita del santo poverello, ripercorrere i suoi passi, dormire nei luoghi che lo avevano ospitato, era stato per me motivo di arricchimento culturale e spirituale. Una vera folgorazione. Lungo quel percorso due tappe coincidevano esattamente con il cammino di S. BENEDETTO. Proprio quello di cui Nicola mi stava parlando. Fu in quella occasione che, inconsciamente, decisi che prima o poi lo avrei percorso. Di S. Benedetto mi hanno sempre incuriosito le numerose immagini che lo ritraggono con l’indice della mano sulla bocca come a sottolineare l’importanza del silenzio quale strumento di potere su sé stessi e condizione di accoglienza del prossimo.
Cominciai ad allenarmi in vista della partenza che avrei pianificato nei successivi 15 giorni. Studiavo l’itinerario e, contemporaneamente, la vita del Santo. Mentre leggevo un’intervista a Papa Ratzinger sulla vita di San Benedetto, una frase attirò la mia attenzione: “Chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino.”
Confesso che, inizialmente, pur restandone affascinato, stentavo a comprenderne il vero significato. Forse perché ero più interessato all’aspetto escursionistico del cammino rispetto a quello spirituale.
Nicola invece continuava ad intrattenermi su questo argomento: “Benedetto è l’inventore dell’agricoltura che cura. Non più erbe selvatiche raccolte da esperti ma un orto specializzato, il Giardino dei Semplici, che doveva essere presente in ogni convento come esempio di integrazione fra conoscenze fisiche e metafisiche, spirito e materia.”
La cosa cominciava ad interessarmi è anche le sue parole, adesso, assumevano un significato diverso.
“Vedi Mimmo, in questo cammino ti imbatterai in diversi monasteri, luoghi ameni, semplici. In ognuno di essi troverai un’area adibita alla coltivazione delle piante medicinali e aromatiche e ad occuparsene era uno specialista, farmacologo, medico e speziale “.
Colpito dal mio ritrovato interesse concluse la sua disamina con una frase che, se mai ce ne fosse stato bisogno, eliminò ogni residuo dubbio e mi spinse a preparare lo zaino e partire.
“Il cammino di San Benedetto è la medicina per tutti i mali. Troverai enormi spazi verdi che curano, capaci di produrre le “sostanze che curano”, rimarrai incantato dai piccoli e virtuosi borghi medievali che attraverserai. Credimi, questo cammino ti cambierà la vita”
Quando decisi di partire Nicola si propose di accompagnarmi a Cassino. Il punto di partenza. Avrei percorso il cammino in senso opposto rispetto a quello classico, da Cassino a Norcia. Accettai, ma sapevo già che la sua era una scusa, il suo vero obiettivo era una visita all’azienda vinicola di Raffaele, un amico in comune originario di Qualiano che si trova a Rocca d’Evandro, pochi chilometri prima di arrivare a Cassino. Il punto di partenza del cammino. Arrivammo in paese di mattino presto e facemmo colazione nell’unico bar aperto. Il barista ci accolse con un entusiasmo che faceva a pugni con il mio aspetto assonnato. Mentre ci serviva il caffè ci spiegava, con un moto d’orgoglio, che il paesaggio conserva gelosamente, anche nel nome, le tracce degli avvenimenti e delle numerose esperienze umane trascorse, dal passaggio di Enea accompagnato dal Re Evandro, il suo primo alleato in terra Italica, a quelle di Ettore Fieramosca di cui si narra la nascita proprio al castello.
Il paese è piccolo, 3012 abitanti appena, distribuiti lungo il colle ai piedi del monte Canino.
Impossibile non restarne affascinati.
Il borgo, proprio sotto il castello, ha una chiara impronta medievale e un aspetto quasi magico, legato ad un passato contadino ed artigiano, ricco di leggende, tradizioni e devozioni che vivono ancora nel racconto delle persone, spesso anziane, rimaste a popolarlo.
Arrivammo alla masseria di Raffaele di buon mattino nel pieno rispetto della tradizione e della filosofia contadina del posto. L’aria frizzantina era pregna di un gradevole odore di pulito mentre il paesaggio mi riportò al Giardino di San benedetto di cui mi parlava Nicola, svelandomi come il contatto con la natura, quando è curata dall’uomo, può essere una vera e propria terapia per il fisico, la mente e lo spirito.
All’ingresso della cantina aziendale faceva bella vista un enorme masso con la scritta: est, est, est.
Fu lo stesso Raffaele a narrarmi la leggenda legata a questa scritta che, in realtà, nasce a Montefiascone, un po’ più a nord. Nel 1111, Enrico V di Germania si dirigeva a Roma per essere incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero. Durante il tragitto incaricò Martino, il più giovane tra i suoi fratelli, di precederlo lungo il cammino di esplorazione del territorio e di individuare e segnare con la scritta est la presenza di buon vino. Martino così fece e, arrivato a Montefiascone trovò un vino talmente buono da ottenere la valutazione massima per cui ancora oggi su quel masso è inciso a grandi lettere per tre volte il segnale stabilito.
Est est est.
Le spiegazioni di Nicola e la spensieratezza di queste prime ore mi avevano, momentaneamente, distratto dal mio vero obiettivo. Dovevo percorrere 300 km e attraversare il cuore dell’Italia centrale: percorre tutto il Lazio a partire dal confine con la Campania e giungere fino a Norcia, in Umbria. Sedici tappe che avrebbero messo a dura prova il mio fisico e soprattutto (questo lo scoprirò più avanti) il mio spirito.
Nel pomeriggio raggiungo Montecassino e riesco nell’impresa titanica di comprimere tutto il materiale di cui avrei avuto bisogno, nei 17 giorni di cammino, in uno zaino di appena 12 kili. La prima tappa si snoda da Cassino a Roccasecca e coincide, in gran parte, con il sentiero della memoria, un vero e proprio museo a cielo aperto che racconta la Seconda guerra mondiale. Ero felice, avevo con me tutto ciò di cui avevo bisogno: uno zaino, due gambe ed un sacco a pelo che sarebbe diventato, all’occorrenza, la mia dimora per i prossimi giorni. I primi km sono un tuffo nella storia e nella memoria.
Già alle spalle dell’Abazia c’è il sacrario dei militari polacchi, mentre nei pressi della moderna Università degli studi di Cassino, si trova il cimitero del Commonwealth (inglese).
Procedo seguendo il percorso della “CAVENDISH ROAD” e mi imbatto in un carrarmato polacco “Sherman”, monumento commemorativo della battaglia combattuta per attraversare il fiume e sfondare la linea Gustav.
I primi giorni in cammino scorrono fluidi e mi permettono di rispettare in pieno la tabella di marcia che mi ero prefissato.
Quando affronto lunghi cammini da solo, come in questo caso, pianifico ogni particolare, ogni sfumatura del viaggio. Dalla preparazione dello zaino al kit di primo soccorso, dallo studio delle tracce alle fonti d’acqua presenti. Ma l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e, se non lo sai affrontare adeguatamente, rischi di compromettere definitivamente il tuo obiettivo. Un po’ come nella vita.
Avevo già percorso 100 dei 300 km previsti. Ero a un terzo del cammino e, tutto sommato, non avevo avuto grossi imprevisti. Le gambe giravano ed il mio passo era fluido. Decido quindi di accorpare due tappe in una, nel tentativo di valicare il confine tra Lazio ed Umbria un giorno prima del previsto. L’obiettivo era quello di raggiungere Trevi, nel Lazio, in prima serata. Per circa 10 km cammino costeggiando il fiume Aniene ed il rumore dell’acqua accompagna ogni mio singolo passo e, soprattutto, non mi fa percepire il caldo asfissiante di questi giorni di maggio. Ero a soli 5 km dal punto tappa. D’improvviso il mio passo diventa pesante, il cuore comincia a battere con frequenze sempre maggiori ed un senso di nausea annulla tutte le mie certezze, costruite minuziosamente in questi primi 100, impeccabili, km di cammino. Comprendo presto che il mio corpo, esposto al sole per almeno 10 ore dall’alba e senza protezione, era sul punto di subire un colpo di calore. In questi casi, non appena ci si accorge del rischio, bisogna immediatamente portarsi in ambiente fresco e ben arieggiato. E, soprattutto, rimanere lucidi. Percorro, a fatica gli ultimi due (interminabili) km che mi separano dal borgo di Trevi. I ragazzi dell’accoglienza, che avevo chiamato non appena mi ero reso conto della gravità della situazione, mi vengono incontro con l’auto e, vedendomi disteso, gambe all’aria nel tentativo di ossigenare il cervello, comprendono subito la complessità della situazione. Mi caricano in macchina e mi accompagnano in camera e, con le ultime forze rimaste, mi infilano sotto la doccia, ancora vestito, affinché l’acqua raffreddi la mia epidermide. Subito dopo tamponano con teli umidi i polsi, il collo, l’inguine e le ascelle e mi poggiano sul letto. Confesso che ho un vago e disordinato ricordo di quei momenti. Quello che invece ricordo nitidamente sono le loro parole appena ho ripreso appieno conoscenza. “Tranquillo, hai avuto un colpo di calore. Non sei il primo e non sarai l’ultimo. Oggi ne abbiamo salvati tre”.
I successivi giorni scorrono fluidi e lo spavento oramai è solo un brutto ricordo. Giungo così agevolmente a Rieti valicando la fatidica soglia dei 200 km percorsi ed un “incontro inaspettato” segnerà i prossimi km (ed il mio spirito) fino a Norcia, la meta finale. Alla fine di un impegnativo strappo in salita, in corrispondenza del santuario francescano di Poggio Bustione, un gruppo di 3 cani maremmani ostruisce il mio cammino. Sono di fronte a me e non hanno nessuna intenzione di spostarsi. Cominciano ad abbaiare e sembrano alquanto aggressivi. Evidentemente il gregge si trova nei paraggi e loro stanno semplicemente facendo il proprio lavoro. Di tornare indietro non se ne parla. Quando si incontrano cani da pastore c’è un protocollo ben preciso da seguire. Decido quindi di liberarmi dello zaino e, tenendomi a debita distanza e senza fare movimenti bruschi, mi accovaccio a terra. Questo movimento, però, attira l’attenzione di un quarto cane, che era dietro di me e non avevo visto, che cerca di mordermi in corrispondenza della caviglia destra. Fortunatamente i miei scarponi attutiscono la forza della presa e riesco a divincolarmi. Tiro fuori delle mandorle e dei biscotti nel tentativo di ammaliarli e cerco di muovermi il meno possibile. Saranno passati 20 interminabili minuti, anche se a me, lo confesso, sono sembrate 2 ore quando, in lontananza, scorgo una sagoma bardata da un mantello marrone che attira la mia attenzione. Si tratta di Fra Renzo, il guardiano del Santuario di Poggio Bustone. Con la mano mi fa segno di seguirlo. Oramai è abituato al passaggio dei pellegrini e con tutti è sempre molto gentile ed accogliente. In perfetto spirito francescano mi offre una stanza dove poter passare la nottea. Il Santuario si trova in una posizione strategica e la vista sull’intera vallata sottostante è splendida. Condivido la stanza con tre gatti che, per un po’, annullano la mia solitudine e risollevano il mio spirito. Il mattino successivo, di buon’ora, saluto Fra Renzo, lo ringrazio e mi rimetto in cammino. Giro l’angolo e, indovinate un po’, i cani sono ancora lì, esattamente dove li avevo lasciati. Ma il loro comportamento e ’radicalmente cambiato. Adesso scodinzolano e mi vengono incontro con atteggiamento amichevole, mi annusano e sembrano vogliosi di qualche coccola. Del resto mi trovo nei luoghi di San Francesco e lui, si sa, con gli animali aveva un rapporto del tutto speciale.
Con ritrovato entusiasmo attraverso i borghi di Leonessa e Monteleone nel pieno rispetto della tabella di marcia, valicando un magnifico altopiano coltivato a farro e a patate e con animali al pascolo. Un vero paradiso per gli occhi e lo spirito. Per 5 km cammino in una fitta rete di sentieri, attraversando boschi ombrosi e sconfinati che formano una mirabile tavolozza di colori.
Quando un cammino volge al termine cerchi di goderti ogni singolo passo. Ogni metro. In questo modo anche i particolari più insignificanti, o quelli che ritenevi tali, diventano importanti fonti di riflessione.
Camminando lungo la statale noto dei fiori posti sul ciglio della strada. Una di quelle lapidi commemorative che ci ricordano i tanti morti per incidenti stradali sulle strade italiane. Mi avvicino con rispetto e do un’occhiata alla foto. È un ragazzo sulla trentina morto circa 20 anni fa. Chiaramente vittima di un tragico incidente. Guardo la data di nascita, 1973 e penso: “oggi avrebbe avuto la mia stessa età”. Faccio il segno della croce, bacio la foto, poggio un fiore raccolto poco distante e proseguo il mio cammino.
In lontananza una sagoma che sembra essere uscita da un quadro di Van Gogh, attira la mia attenzione. Si tratta di un anziano contadino, estremamente elegante nella sua sobrietà; la sua bici è ancorata ad un palo della luce mentre lui è fermo sul bordo della strada ed incrocia il mio sguardo; gli sorrido, mi avvicino salutandolo amichevolmente con una poderosa stretta di mano.
Roba da altri tempi.
Indossa uno splendido cappello di paglia che copre, parzialmente, due magnetici occhi azzurri. Mi ricorda Paul Newman. Come due vecchi amici cominciamo a chiacchierare del più e del meno, mi domanda cosa ci facessi lì e dove stessi andando. Gli parlo del cammino, di mio figlio e della mia passione per i viaggi in solitaria. Sembra incuriosito dallo zaino strabordante e dal mio racconto. O forse è solo gentile e possiede la capacità, ormai in disuso, di ascoltare e mettere a proprio agio il prossimo.
Mi congedo, lo saluto e, mentre mi incammino nel senso opposto al suo, mi stringe le mani e mi ringrazia.
“Di cosa?”.
Rispondo perplesso ed un po’ imbarazzato.
“Di aver messo un fiore sulla lapide di mio figlio”.
Lo saluto amorevolmente cercando, vigliaccamente, di non incrociare il suo sguardo. Poco più avanti un cartello di colore marrone con sopra inciso un tao ed una lettera b in giallo indica “Cammino di San Benedetto – Norcia 1 km.
Il mio cammino è giunto al termine.
Nicola aveva ragione, il cammino di San Benedetto ti cambia la vita.