Campi flegrei – Terra madre

Da piccolo mio padre mi portava spesso al mare d’inverno. Ricordo infinite passeggiate che partivano dalla spiaggia di Miliscola ed arrivavano fino al monte di Procida, passando per la baia di Torrefumo. Mi raccontava di mostri marini ed epiche battaglie navali combattute lungo questo tratto di costa. Ricordo ogni particolare di quelle passeggiate. Il contatto con la sabbia bagnata, le corse all’impazzata sulla battigia e l’odore del mare. Soprattutto quello. In inverno il mare ha un odore completamente diverso. Un odore che ti entra dentro. Ti basta semplicemente mettere i piedi nudi sulla sabbia ed entri in un’altra dimensione. Forse è per questo che, da sempre, vivo il mare esclusivamente d’inverno. Perché, inconsciamente, mi riporta alla mente l’infanzia ed il rapporto con mio padre, che ho perso troppo presto. Sono quindi figlio dei campi flegrei, una terra viva e vibrante, dalle infinite energie che nel corso di milioni di anni hanno plasmato il profilo geologico del territorio ed arricchito il cuore di chi ci abita. Basti pensare alle numerose cave di tufo, sparse qua e là lungo il territorio, che hanno rappresentato un habitat “naturalistico” ideale per quelli della mia generazione che, alla PlayStation e agli Smart phone, preferivano di gran lunga vivere il territorio come novelli esploratori. E così una collina in pietra vulcanica diventava il monte Everest e la grotta della sibilla un labirinto dove nascondersi da famelici mostri marini.
Del resto da sempre, gli abitanti del posto convivono “pacificamente” con la minaccia costante di una futura eruzione. Una situazione evidente a chiunque, anche al viaggiatore più distratto. Ma i campi flegrei sono tanto altro. Una terra che offre numerosi spunti di interesse per entrare in contatto con la vera essenza della natura e con il proprio inconscio. Il suo perenne “moto” acuisce la consapevolezza che l’intero creato è vivente ed è il risultato irripetibile di una storia che, senza interruzione, ha portato il filo della vita per miliardi di anni. Qui l’uomo è riuscito a trovare forme di dialogo con la natura, a conviverci e a sfruttarla come risorsa.
Sono sempre stato affascinato dalle cose viventi anche se, come tutti quelli della mia generazione cresciuti senza smartphone, da bambino ero attratto da una visione meccanica della vita. Con i miei cugini Lello e Leo ci divertivamo a realizzare marchingegni complicati partendo da cose semplici, così un foglio di carta poteva essere manipolato per farlo volare, mentre rondelle di vecchie macchine montate su scalcinati assi di legno si trasformavano in stupefacenti mezzi di trasporto a due, tre e quattro ruote.
Insomma, il divertimento consisteva nel dare “vita” agli oggetti inanimati perciò, oggi, ripensandoci, credo sia uno dei motivi per cui sento un’irrefrenabile attrazione per i campi flegrei e per tutto ciò che è vivente. Ero impegnato, per il mio lavoro di guida naturalista, in una serie di sopralluoghi tra il Monte Nuovo ed il lago D’Averno. Un grosso tour operator mi aveva commissionato delle visite guidate con delle scuole ed io, come sempre, non volevo farmi trovare impreparato. Ero fermo nel punto più alto del cratere del Monte Nuovo. Un enorme “buco” dal diametro di 400 metri. Questo vulcano, attualmente quiescente, è il più giovane d’Europa in quanto si è formato in appena sette giorni, dal 29 Settembre al 6 Ottobre del 1538. La giornata era tersa ed in lontananza scorgevo nitidamente, di fronte a me, le inconfondibili sagome di Capri, della penisola sorrentina e dell’intera skyline dei campi Flegrei.
Da Posillipo a Capo Miseno, passando per il rione terra e la splendida costa di Baia.
Ero sopraffatto da tanta bellezza. Chiamai mia moglie e le dissi di non aspettarmi per cena, e neanche l’indomani. Per i prossimi due giorni avrei percorso zaino in spalla il cuore dei campi flegrei, partendo da Monte Nuovo ed arrivando a Capo Miseno, passando per Cuma e il Monte di Procida, prima di chiudere un magnifico anello escursionistico di 25 km. D’altronde con me ho sempre il mio fidato zaino da 60 litri, una seconda casa pronto a soddisfare ogni mia necessità. La pianificazione non era un problema, in quanto conosco a menadito ogni cm quadrato di questi luoghi, ogni sfumatura, ogni più remoto anfratto.
Il mio “cammino flegreo” poteva avere inizio.
Dopo aver percorso tutto il periplo del cratere del Monte Nuovo scesi da un sentiero secondario che mi condusse prima alle fumarole e poi nel sottostante bosco lussureggiante di vegetazione. Lo scenario paesaggistico cambiò’ di colpo, le pomici e le scorie vulcaniche sotto ai miei piedi lasciarono il posto ad un terreno più compatto ed arenario, anche grazie ai pochi contadini rimasti che, proprio in questo luogo, da anni coltivano uno splendido vitigno autoctono che, ad ogni vendemmia, regala un buonissimo Piedirosso che i locali chiamano “Per e Palummo”, per via del graspo che ricorda la zampetta di piccione. Gli ultimi tornanti mi portarono direttamente all’ingresso dell’Ade, il lago d’Averno, che i greci prima ed i romani poi identificavano con l’ingresso dell’oltretomba. In questi luoghi la natura si fa scienza, arte e cultura. Lungo il percorso mi imbatto nel tempio di Apollo, un imponente edificio Romano in opera laterizia miracolosamente rimasto in piedi nonostante l’eruzione del 1538 che distrusse per sempre il borgo di Tripergole che lo ospitava.

Una grandiosa sala termale, coperta da una cupola, ormai interamente crollata, che misurava circa 38 mt. di diametro, di poco inferiore solo a quella del Pantheon a Roma. Per la sua particolare forma, in origine doveva essere stato un tempio dedicato al culto degli dei. Secondo alcuni ad Apollo, secondo altri a Nettuno o a Plutone. Non lo so, le fonti sono discordanti, quello che so è che questo monumento di straordinaria bellezza ci di-mostra come i campi flegrei siano l’esempio di un terri-
torio soggetto a seri rischi naturali per l’uomo ma al tempo stesso determinante nella sua storia millenaria di prestigio sociale ed economico. Dopo aver percorso tre quarti del periplo del lago entrai nella grotta di Cocceio. Una galleria sotterranea, scavata sotto il monte Grillo, che collegava la sponda occidentale del lago d’Averno con la cripta romana di Cuma. Fu costruita, per esplicita testimonianza di Strabone, dall’architetto Cocceio, in attuazione del progetto di Agrippa di collegare il lago d’Averno, sede del Portus Iulius, con Cuma e il suo approdo a mare.
Qui l’urbanizzazione ebbe inizio dal VIII secolo a.C., a partire dalla colonizzazione greca dell’Italia meridionale. Cuma era la prima città greca in Italia a cui seguì Napoli. Fu Fondata su due colline e godeva di una felicissima posizione strategica, adagiata in un formidabile porto naturale e, nonostante i disastrosi terremoti che l’hanno colpita, ha goduto di una mirabolante storia militare ed economica. Passai la notte nella foresta di Cuma e, dopo aver montato la tenda al riparo dal vento, tra le dune ed il sottobosco, mi persi nel tramonto, rapito dalla bellezza del luogo ed immaginando memorabili battaglie navali tra le galee imperiali e quelle dei saraceni, provenienti da Oriente.
Non a caso per i greci il bello, prima di essere un risultato, era un elemento motore, perciò, l’urbanità doveva essere illuminata dalla bellezza, senza la quale l’armonia civile è impossibile.
Il mattino seguente, di buon’ora, mi rimisi in cammino seguendo la linea di costa fino al Monte di Procida. Le case in tufo giallo tutte intorno a me raccontano di una terribile eruzione, avvenuta circa 15000 anni fa, che ha immesso nell’aria decine di km cubici di materiale piroclastico e generato una vera e propria “valanga di fuoco” con temperature che oscillavano tra i 500 e gli 800 gradi, cambiando profondamente la vita e la morfologia di questi luoghi. E l’uomo è sempre riuscito ad adattarsi. Sembra assurdo, ma è la vita che ricomincia dopo la morte.
Io intanto sono giunto a Miseno. Il luogo del mito. Che per il geografo greco Strabone era, nella memoria dell’antichità, un unico blocco di tufo da cui poi si sarebbero staccate Procida ed Ischia. Per me, molto più banalmente, rappresenta il paradiso in terra.

 

Percorro la spiaggia di Miliscola, il cui nome deriva dal fatto che questa zona era usata come scuola militare (Militum schola) dell’impero romano, anche per la vicinanza con il porto naturale di Miseno. Dopo qualche tornante raggiungo i 65 metri sul livello del mare del Belvedere: da qui la vista è spettacolare e spazia su tutte le isole dell’arcipelago campano. L’isola di punta pennata disegna col porto di Baia un perfetto semicerchio e, anche un occhio distratto, non fatica a scorgere il profilo di un cratere vulcanico. Uno dei 40 che popolano l’enorme caldera dei campi flegrei.
Dopo aver percorso la lunga galleria scavata nel tufo giungo al punto più estremo. Il faro di Capo Miseno. Per una strana congiunzione astrale oggi il Faro è aperto e per tanto visitabile, grazie alla giornata dedicata all’ambiente organizzata dal FAI. Ne approfitto per salutare il custode storico del faro, Fulvio, oggi in pensione ma sempre presente sul posto. Tutte le volte che ci parlo mi perdo nei suoi racconti e ne rimango affascinato. Risalgo lungo il “santuario degli uccelli” e raggiungo il punto più alto del promontorio di Miseno. Di fronte a me i campi flegrei in tutta la loro bellezza, il mare si fonda con i laghi, qua e là spuntano crateri o quello che ne resta, in lontananza riconosco il promontorio di Cuma e riesco a scorgere la costa di Castelvolturno, il monte Massico e, all’orizzonte, i monti Aurunci e l’isola di Ventotene. Scendo dal costone nord del promontorio di Miseno attraversando un fitto bosco che mi conduce agevolmente sulla spiaggia di Miliscola.

Esattamente dove tutto ebbe inizio e dove, se chiudo gli occhi, vedo ancora un bambino irrequieto di 5 anni che passeggia mano nella mano col padre, ammaliato dai suoi racconti di mostri marini ed epiche battaglie navali.