“Ma chi te lo fa fare “?
Mi capita spesso di discutere con gli escursionisti che accompagno periodicamente lungo i sentieri italiani, sui motivi reali che spingono una persona a percorre tanti km a piedi ed in totale autonomia. A tutti do sempre la stessa risposta:
“Non lo so perché lo faccio”.
Forse per divertimento, forse per sport o semplicemente per esplorare la mia anima. Una fuga dalla realtà, un moto perpetuo inteso non solo come mera metafora della vita ma come termometro che misura l’umore, la forza fisica, la voglia di sperimentare, il desiderio di cambiare. Quando sono in cammino solitario i passi si trasformano in strumenti per calmare la mente, vincere l’ansia e i pensieri assillanti. La definirei una terapia dell’anima con un’unica, sola regola da rispettare: vivere il presente.
L’idea di attraversare a piedi il meridione d’Italia mi balenava in testa da tempo immemorabile. Un progetto dinamico, in continua evoluzione, che mi aveva visto percorrere in circa 3 anni, 2000 km zaino in spalla, durante i quali avevo avuto modo di attraversare la Puglia, la Basilicata, la Campania e la Sicilia. Così, quando mi sono imbattuto nel Calabria coast to coast, ovvero la traversata della Calabria dallo Jonio al Tirreno, ho subito pensato che fosse il tassello mancante di un puzzle che avevo cominciato a costruire, minuziosamente, qualche anno prima. Per questo viaggio l’idea (molto ottimistica) era di partire da Soverato, sulla costa jonica, e di giungere sul Tirreno, a Pizzo Calabro, tre giorni dopo. Circa 65 km da percorrere tutti di un fiato. Avevo poco tempo per pianificare questo cammino. Lo feci in appena 7 giorni. Un errore che avrei potuto pagare caro. Raggiungo Soverato, punto di partenza, dopo un interminabile viaggio della speranza di 12 ore alternando treno e bus. Decido di dormire qui la prima notte, sarei partito all’alba del giorno dopo, in quanto siamo ancora in pieno inverno ed ho poche ore di luce solare davanti a me ed il percorso, soprattutto nei primi km, si presenta insidioso e con dislivelli impegnativi. Mi lascio alle spalle il mare azzurro di Soverato e mi incammino verso le montagne. I primi 15 km mi lasciano senza fiato, non solo per il dislivello. Si resta affascinati dalla fitta trama di borghi arroccati sui declivi collinari e montuosi dell’Appennino calabro. Pezzi di territorio caratterizzati da un enorme potenziale paesaggistico e ambientale che presentano una tipologia ricorrente: scarsa densità abitativa, modeste dimensioni, strade strette e tortuose, notevole presenza di fortificazioni (castelli, torri, cinte murarie), di architetture religiose (abbazie, monasteri, chiese, campanili) e di un consistente patrimonio civile, costruito con sapienza e rispetto della tradizione popolare. Io intanto sono in cammino da circa 20 km. Venti lunghissimi e faticosissimi km. A peggiorare la situazione una bufera di acqua e vento con cui dovrò convivere per tutti i 65 km rimanenti che mi separano da Pizzo Calabro, meta finale. Sono in cammino da appena 4 ore e già si presentano le prime difficoltà. Mi riparo in un vecchio rifugio abbandonato nel bosco di Petrizzi. Cerco inutilmente di asciugarmi il viso dall’acqua copiosa che continua a scendere sulla mia testa. Oltre ai fantastici scenari paesaggistici incontrati lungo il percorso, questi primi km mi hanno lasciato in dono un brusco abbassamento della temperatura con un’escursione termica di circa 15 gradi. Dai 22 gradi di Soverato ai 7 gradi di Petrizzi. Al mattino ero con i piedi immersi nello splendido mare di Soverato, nel primo pomeriggio mi trovavo in un girone dantesco circondato dalle tenebre.
Quello che non sapevo era che il peggio doveva ancora venire.
Sono completamente avvolto da una nebbia fittissima che mi lascia una visibilità effettiva di pochi metri. La zona è totalmente isolata, nessuna copertura telefonica, nessuna connessione. Sono solo, infreddolito, bagnato e non riesco a scorgere nulla che vada al di là della punta del mio naso. Getto uno sguardo al mio GPS e noto, con terrore misto ad ansia, che ho percorso appena 21 km. Il mio cardiofrequenzimetro segna 165 battiti cardiaci, troppi. Sono quasi in iper ventilazione. Ho da attraversare ancora un dislivello totale di 4600 metri e comincio a nutrire seri dubbi sulla reale possibilità di poter completare questo cammino in tre giorni. Tolgo gli occhiali, alzo la testa verso l’alto, chiudo gli occhi ed emetto un profondo respiro, lasciando che l’acqua mi bagni il viso. La verità è che ho seri dubbi anche sul fatto di riuscire a completare questa prima tappa. I cattivi pensieri cominciano ad invadere la mente, si insidiano tra le certezze, minano la mia minuziosa pianificazione. Un po’ come nella vita.
Intorno a me il nulla.
Poi, d’improvviso, in lontananza scorgo una sagoma umana che si fa largo tra la nebbia.
Mi sento chiamare: “Mimmo…ci sei?”
La stanchezza a volte fa brutti scherzi e, in condizioni estreme, ti fa vedere e sentire cose che, in realtà, esistono solo nella tua immaginazione. Ma la sagoma sembra proprio vera e si avvicina, allora capisco che quello che sto vedendo è reale e non il frutto della mia immaginazione, minata dalla stanchezza e dalla mancanza di ossigeno.
“Mimmo, sei tu”?
Prima ancora di rispondere o semplicemente di annuire, quella piccola sagoma, ora di fronte a me, si manifesta sotto le sembianze di un piccolo uomo di mezza età, vestito in maniera semplice e bardato da un cappotto anni 80 di almeno due taglie più grandi.
“Sono Pietro, sapevo che eri qui”.
E allora tutto si fa più chiaro. Avevo comunicato qualche giorno prima agli organizzatori del KALABRIA COAST TO COAST della mia partenza e loro, visto le pessime condizioni meteo, avevano pensato di avvisare Pietro, un volontario forestale dell’ente parco che, in condizioni estreme, si trasforma in proverbiale soccorritore. Pietro mi lascia una coperta termica, degli integratori e, soprattutto, una buona notizia:
“Sei a soli 4 km dal punto tappa, tutti in discesa, il peggio è alle spalle”.
Rassicurato dalle parole di Pietro e da una provvisoria finestra di bel tempo, ritrovo le energie perdute e mi rimetto in cammino verso Ovest in direzione Tirreno. Mi sento più sereno, il mio cardiofrequenzimetro segna 70 battiti ed io sono felice di aver ritrovato il sorriso ed un discreto stato fisico.
In passato ho camminato per oltre 50000 km in 18 regioni italiane con ogni tipo di clima. Dai 40 gradi secchi della Riserva dello Zingaro (in Sicilia) ai meno 5 delle Alpi Apuane, dalla Gariga stepposa Salentina agli insidiosi calcari dell’Aspromonte. In casi di condizioni meteo estreme cerco sempre di appoggiarmi alla mia esperienza, agli errori fatti, che ho compreso e verso i quali nutro un profondo rispetto, perché li considero strumento di crescita sia umana che professionale. Metto da parte la tenda e decido, quindi, di passare la notte a Petrizzi, al caldo, pernottando in una delle case che rientrano nella grande rete accoglienza del cammino. Ho passato le prime due ore in camera a cercare di asciugare col phon calzini, intimo e scarpe che, nonostante un alto grado di impermeabilizzazione, erano fradicie di acqua ed avevano triplicato il proprio peso. La casa si trova vicino alla piccola chiesa del XVIII secolo, praticamente attaccata. Rapito dalla sua bellezza decido di entrare per dare un’occhiata alla struttura. Una cosa che faccio sempre quando sono in cammino. Questi luoghi hanno un fascino incredibile che valica la fede. Rimango colpito dai meravigliosi altari con marmi pregiati provenienti dall’ antico Oriente ed affascinato da un prezioso ostensorio dell’arte orafa napoletana del 700.
Il mattino successivo, di buon’ora, sono di nuovo in cammino. L’obiettivo è quello di arrivare per il tramonto a Pizzo calabro, ovvero il mar Tirreno, la meta finale del mio cammino.
Paradossalmente, lungo il percorso, non ho incontrato nessun essere umano, a parte Pietro.
All’alba del giorno dopo sono di nuovo in cammino. Al Tirreno mancano ancora 19 km e 1450 metri di dislivello totale. Raggiungo agevolmente l’oasi naturalistica del lago Angitola, nel comune di Maierato, nonostante 2 km percorsi sulla statale con i tir che mi sfrecciavano a pochi cm. Prima di arrivare al cancello dell’oasi (il primo di una lunga serie) l’organizzazione mi invia un messaggio con le varie combinazioni dei lucchetti, in quanto tutti gli accessi sono serrati. Una sorta di caccia al tesoro che mi ha incuriosito e, al tempo stesso, spaventato in quanto se il mio cellulare si fosse spento avrei dovuto percorrere, in alternativa, la pericolosissima statale. L’oasi di Angitola è meravigliosa. Una zona umida di importanza internazionale grazie alle numerose specie di uccelli migratori che la popolano. L’ambiente che circonda il lago è quello tipico della vegetazione mediterranea, con importanti lembi di querce da sughero, uliveti selvatici, corbezzolo e mirto. Una coppia di falchi pescatori mi segue, dall’alto, lungo tutto il percorso, quasi a scortarmi. Oppure, molto più banalmente, mi hanno solo scambiato per una preda troppo grande da poter afferrare.
Apro l’ennesimo cancello e mi incammino verso l’uscita quando, di fronte a me, in lontananza, intravedo una coppia di pellegrini in compagnia di un mulo. Mi avvicino incuriosito e li saluto amichevolmente utilizzando il mantra di ogni viandante:
“Buon Cammino”
Ricambiano il mio saluto e scambiamo due chiacchiere di circostanza, nonostante il mio inglese scolastico. Si chiamano Anna e David e sono svizzeri. Hanno percorso tutta la via Francigena dal Colle San Bernardo (Val d’Aosta) a Roma. Poi hanno proseguito lungo la Francigena del Sud fino alla Puglia percorrendo tutto il periplo della costa fino allo Jonio. Da Soverato, quindi, hanno attraversato tutta la Calabria fino al mar Tirreno. Lui è un importante dirigente di una multinazionale mentre lei è una scrittrice. Hanno percorso in compagnia del loro mulo, fino al momento del nostro incontro, 1870 km in circa 80 giorni. Affascinato dalla loro storia ne approfitto per camminare insieme per qualche km. Ho sempre considerato l’incontro con altri viandanti come un arricchimento personale e strumento di crescita interiore. Ci congediamo di lì a poco con la promessa di rivederci alla fine del cammino.
Nel frattempo un cane randagio, un maremmano dal viso segnato da chissà quante battaglie e a cui ho dato il nome di Ulisse, mi accompagna per qualche km. Ha un passo regolare, in perfetta simbiosi col mio. Ogni tanto gli parlo e gli accarezzo la testa. Gli racconto di mio figlio e della sua smisurata passione per il Napoli. Lui mi guarda, si ferma e sbadiglia. Come faceva il mio cane, fedele compagno di giochi ed avventure per 12 lunghi anni e che avevo perso da poco. Col tempo ho imparato che quando interagiamo con un cane e viviamo una situazione di stress, paura o preoccupazione, lo stesso potrebbe sbadigliare perché si sente a sua volta a disagio per il nostro malessere. Decido quindi, a malincuore, di congedarlo. Anche perché si stava allontanando troppo dalla sua zona. Non prima però di essermi accertato che facesse ritorno nel punto esatto dove ci eravamo incontrati. Percorro in scioltezza e con ritrovata autostima il tratto di cammino che mi conduce prima a Montirosso e poi a Maierato.
L’incontro con Anna, David ed Ulisse mi aveva rinvigorito. Mancano solo 10 km al Tirreno, che conto di percorrere in due ore e mezzo. Camminare in solitaria ti trasporta in una dimensione parallela. È una sensazione difficile da spiegare. Il tempo così come lo conosciamo noi, quello scandito dalle 24 ore dell’orologio, si annulla, non conta più. Ti riposi quando sei stanco, dormi quando hai sonno e mangi quando ha fame.
Il mio passo è tornato fluido e regolare. Un raggio di sole mi illumina il viso dopo essersi fatto spazio tra le nuvole che, lentamente, si diradano ad est. All’uscita del bosco alzo lo sguardo e mi imbatto in un segnale. Una freccia in legno con i colori bianchi e rosso recita:
”Tirreno 5 km”.
Dalla collina intravedo il profilo inconfondibile della costa tirrenica. Il mare che, in lontananza, si confonde con l’orizzonte, mi ricorda che il mio cammino sta giungendo a termine. D’improvviso rallento, cerco di godermi ogni singolo passo. Decido di percorrere la distanza mancante all’arrivo a 3 km/h. La velocità dell’anima. A questa andatura tutto si fa più chiaro. Mi ritornano in mente gli incontri inaspettati, la fatica, la pioggia, la nebbia, le vesciche, la soddisfazione di aver completato una tappa. Percorro gli ultimi metri che mi separano dal mar Tirreno con un sorriso malinconico. Mi succede sempre quando termino un cammino. E mi riecheggia in mente una vecchia frase che avevo letto da qualche parte:
“Il vero miracolo non è camminare sulle acque, ma di camminare sulla terra nel momento presente e di apprezzare la pace e la bellezza che sono disponibili ora”.